Henri

Testo scritto da Massimo Bertozzi

Disegnare di sgorbia:
col gesso bianco su una lavagna nera
Jean-Pierre Velly

Quella di incidere in rilievo, sia che si affondi nella materia molle del linoleum o in quella dura del legno, è una pratica che si fa per via di levare, ma che in realtà si dispone nei risultati al suo esatto contrario, a far emergere cioè, rilevandone i puri contorni, una immagine quasi in bilico, come sorpresa all'atto del suo divenire, tutta risolta nel sottile equilibrio dei pieni e dei vuoti

"Come xilografo - diceva Lorenzo Viani - levo a scalpellate il di più che seppellisce l'immagine nel sorbo", ma in realtà non era propriamente così, e così non è soprattutto per uno scultore come Henri Beaufour, che delle immagini che si fanno per "forza di levare" ha ben chiara e profonda cognizione.

Per Henri infatti anche questa forma di incisione, rimane un naturale prolungamento della sua passione per il disegno: un altro modo di tracciare e di lasciare un segno, diverso da quello vellutato della matita o da quello lucido della penna, ma anche da quello, scavato di punta e ammorbidito dall'acido, dell'acquaforte.

E così, fin da subito colpisce la nitida campitura dello spazio, scandito perentoriamente dai semplici profili dei corpi, visivamente compatti e quasi geometrici, nonostante l'articolato sviluppo delle linee; e ancora colpisce il contrasto tra il nero metafisico dei fondi e la concitazione dei tratti in primo piano, ma colpisce soprattutto l'impianto monumentale delle figure, che conferisce alla posa delle immagini una solennità dialettale, aliena da qualunque estetismo e le consegna a una corporeità terrestre, di volti arcigni e sguardi duri, di mani robuste e piedi scalzi.

Le sue figure, ognuna a suo modo stralunata e in urto col mondo, questa folla di facce austere e di caratteri spigolosi, si incide nella pasta del linoleum con indimenticabile energia. Figure longilinee e stilizzate, affidate a pochi segni bianchi scavati nel fondo nero del foglio; volti lividi che emergono da un mare di inchiostro; uomini e donne, vecchi e giovani, che mostrano facce ancora pronte ad azzannare la vita, ma anche sguardi rassegnati da troppe sconfitte; in ogni caso una collezione di immagini sorrette da quasi niente, dove proprio la pochezza del segno è funzionale all'eloquenza dell'espressione.

Ma poi ci sono anche teste più propriamente di carattere, quasi suggestioni fisionomiche, in cui prevale l'interesse per l'espressione, grottesca o patetica, dove con una forma semplice, rigorosa e quasi distaccata, Henri registra, con vigore razionalistico e con ricerca di humour, il variare dei volti umani, alle prese non tanto con il variare degli umori, ma sotto l'influsso di stati psicologici o sentimentali più profondi.

Il segno appare a volte più narrativo, più fitto e concitato, quasi a far emergere la profondità di uno spazio che nella realtà è stampato in superficie, ma in ogni caso l'impianto architettonico delle figure conserva sempre la sua geometria essenziale, il corpo dei suoi volumi, il suo equilibrio spaziale.

La sua narrazione scadenzata, scandita da piccole pause nel tratto piuttosto che da una rottura della linea, riesce infatti a rimanere plastica e fluida anche là dove deve rimarcare un vuoto. L’effetto è così quello di una grande omogeneità, di regolarità del segno, anche dove l'ordito è più fitto e articolato, supportato dalla capacità di propagare, e spandere sulla superficie una vibrazione continua e inquieta, capace di coinvolgere anima e corpo dell'osservatore.

Il tutto senza irrigidire il segno; anche quando è messo alle prese con certe forzature geometriche, come quella di una testa squadrata come una scatola di cartone o di quell'altra testa sfaccettata, come una maschera primitiva, con qualche suggestione cubista, nel senso che Henri la risolve in una vivace scomposizione dei piani, ma senza arrivare mai ad ingessare i volumi e ad appiattire lo spazio.

E con ciò si vuole sottolineare come Henri Beaufour si sforzi in ogni modo di rimuovere il rischio di bimensionalità, altrimenti sempre in agguato sia nell'estrema sintesi del bicromatismo che nell'à plat delle vaste campiture, per restituire all'immagine tutte e tre le sue dimensioni, lo spessore delle figure, la profondità dello spazio.

È così che al nero piatto dei fondi, quasi uno spazio assoluto, vuoto e irreale, si sovrappone lo sviluppo fluido delle linee che organizzano lo spazio e definiscono i volumi, con qualche minimo segno di dettaglio, a scandire piccole variazioni di luce, a rimarcare qualche ombra scura, ma scansando in ogni caso ogni eccesso decorativo.

Il contrasto tra luce e ombra si affida alla misura corta di scarti rapidi e improvvisi, facendo a meno di lumeggiature e passaggi sfumati, in modo da lasciare intatta la forza fisica dell'incisione, conferendo allo scavo materico una vertigine da sprofondo, con linee flessuose e continue che scolpiscono le forme e i piani, concentrando ogni residuo luminoso sui volti e sulle mani.

Certo qualche volta accade anche che Henri si lasci prendere la mano da una certa foga espressiva, ma è solo allora che i tratti si fanno estremamente marcati, che le linee accorciano e si spezzettano, disponendo l'immagine a una rigidezza sintetica, che si accosta a certe xilografie espressioniste, come un certo Kirchner ad esempio, ma in ogni caso molto meno freddo e soprattutto meno misurato.

Le sue figure sono infatti sempre riassunte e fissate in un gesto, una smorfia, una cifra caratterizzante, con la semplicità del gessetto bianco che disegnava su una lavagna nera le impressioni della nostra infanzia.

Il solco dell'incisione veicola infatti una forte carica espressiva, ma anche più fragili suggestioni emotive. Certo il gusto per la sintesi e la rapidità del gesto lascia spazio talvolta a deformazioni che esasperano i particolari, colpiscono e distorcono il naso di un pugile, debordano nel fisico di una ballerina, irridono fisici belluini e adipi cadenti, ma poi tutto torna ad essere misurato nello sguardo triste di un clown, nella serena innocenza di un gorilla e finanche nel frenetico vibrare delle ali di un'ape.

Perché in ogni caso queste figure mantengono sempre una loro monumentale austerità, una serietà che non si concede al risibile e al volgare, preservano una parvenza fiera e indomita, un piglio nobile, perché su tutto domina il profondo rispetto di Henri Beaufour per il suo lavoro, che per lui vuol dire rispetto per l'uomo e per la natura. Massimo Bertozzi

Tutta la vita in un segno

Improvvise e sorprendenti, come un'apparizione, le incisioni di Henri Beaufour. Sorprendenti per molte ragioni, ma soprattutto perché si rivelano da subito un frutto maturo, colto al momento giusto, a colpo d'occhio, da mani attente e sagaci.

Per molti artisti quella dell'incisione è una via secondaria, quasi un viottolo di campagna dove trovare sfogo al riposo forzato della domenica, o peggio una scorciatoia, come sparare nel mucchio per mettere almeno qualcosa nel carniere.

Per Henri la pratica dell'incisione, è piuttosto un altro terreno in cui sfogare la passione per il disegno, che rimane il fulcro, intorno al quale continua a costruire lo spessore di un'immagine del tutto aderente al corpo della scultura.

Tutti sanno il procedimento dell'acquaforte, per cui l'acido incide una lastra o di rame o di zinco dove questa non è ricoperta di cera, vale a dire là dove l'artista l'ha graffiata via disegnandoci sopra con uno strumento appuntito.

L'abilità sta tutta nel tracciare il segno, facendo in modo che l'aggressione dell'acido scavi il giusto, né troppo né troppo poco, perché il tratto nero venga fuori puntuale e preciso come quello di una penna e conservi tuttavia un'impronta grassa e granulare come quella di una matita o di un carboncino. Perché poi toccherà alla carta penetrare nei solchi e portar via il colore, senza dover strappare, ma con il risucchio profondo dell'onda lunga, di quando, sfogato l'impeto del vento di libeccio, il mare stracca.

Solo così l'apparente facilità si traduce in felicità del segno, che è una qualità particolare del tratto di Henri. Risultato di un fare rapido e quasi allegro, sempre alla ricerca di una espressività vivace ma non chiassosa, che è un modo ironico e leggero di prendere le distanze dall'accademia. Un tratto che talvolta, come soprattutto quando deve sostenere la concentrazione mentale degli autoritratti, si fa più insistito come a voler nascondere un po' della sua allegrezza, ma resta svelto e fluido, senza rigidità e concitazioni, sempre attento comunque a non gravare l'immagine di troppi dettagli descrittivi.

Non c'è mai infatti, nella puntuale concisione del tratto, la ricerca di effetti atmosferici, neanche nel vorticoso sfrecciare di una motocicletta o nell'aneddoto di un dromedario addomesticato all'aratro: il segno è sempre indirizzato alla sola resa plastica dell'oggetto e perfino la tenuità dei fondi, annebbiati come da un velo di polvere, si dispone a scanso di ogni rigidezza, perché nulla della spontaneità dell'immagine vada perduto.

Emerge così una precisa intenzione di purificare il segno, di asciugarlo, ma non al punto di farlo seccare, ed ecco allora il tono del fondo a dare respiro anche ai tratti più tenui, per sostenerli nel loro sviluppo, senza fargli perdere corpo e concretezza.

Eppure questo modo di graffiare la lastra non è mai estemporaneo: c'è metodo e meditazione anche quando sembra manifestarsi di impeto e all'impronta. Henri non fa mai affidamento sul fascino prestigioso che la morsura dell'acido potrà conferire anche al segno più casuale, quello che conta è non appiattire la freschezza improvvisa dell'emozione, con quel che di rapido e spontaneo si imprime sulla lastra e poi trapassa sulla carta, perché il segno senza perdere la sua materialità, che è quella di marcare forme e volumi, si traduca in immagini, vere e fragranti sorprendenti.

Così anche quando il tratteggio si fa più insistito, come per una improvvisa necessità di riempire il corpo della forma, non assistiamo mai a una diligente ricerca del chiaroscuro, come per una improvvisa nostalgia di colore, quanto piuttosto a una dichiarazione di gusto di uno scultore, per la materia al posto del colore.

Tali riempiture potranno apparire talvolta fin troppo insistite, gelide e oziose, ma si potrà sempre verificare come in ogni caso non vengano mai ad ingessare l'immagine, che si manifesta e vive lasciando che ad agire siano sempre gli schemi spontanei della percezione.

Quello che ad Henri interessa sottolineare, sono infatti i tratti concisi di una verità quotidiana e quasi elementare, di persone e animali, ma quasi mai di cose, con segni semplici e diretti, che delineando i contorni disinvolti di una puntuale struttura formale, traggono dall'anonimato precise fisionomie, e identità e caratteri.

È così per gli animali, che sono una delle passioni di Henri, per le loro articolate stranezze formali così congeniali al gusto un po' selvatico della sua espressività, ma soprattutto perché gli animali, a differenza degli uomini, non se ne hanno a male e con loro si può benissimo essere irriverenti, come con una gallina, della quale si può mettere in bella vista il lato più sconcio della sua natura.

Ma anche e soprattutto per la figura umana, la cui fragranza formale può essere costruita con poco più di niente. Un profilo, un filo di contorno che si dipana dallo stilo a definire un corpo o un viso, come seguendo la scia di una silhouette che si ossida lasciando appena una traccia sulla carta; ma una traccia che palpita, e la figura, con quel pochissimo che trattiene, respira e parla.

Perché queste figure, anche ridotte a puro contorno e appiattite su una lastra, non smettono la loro sostanza, di essere scultura momentaneamente in esilio.

Da qui la forza dei ritratti, incisi come in margine, e di sguincio, mentre il soggetto non se ne avvede. Ritratti in cui c'è molto più che una somiglianza, ed emerge piuttosto l'essenza del personaggio, condensata nella verve di un carattere: l'aura nabi di Vito, il distacco dandy di Giovanni, la concretezza faber di Aldo.

Non a caso qui il disegno diventa più aspro e più ardito, con ombre sbavate e minuziosamente infittite, mettendo in luce una icastica nudità del tratto, con tagli, concitazioni, scorci, innesti di forma e d'espressione.

E allora sorprende ancora una volta di più questa pienezza plastica, tenuta su da una povertà strumentale nuda e disarmata, da una grafia solinga, appena ombreggiata, che riesce a tessere questa magra ragnatela in cui rimane impigliata così tanta verità.

Alla fine viene quasi spontaneo domandarsi da dove arrivi ad Henri Beaufour questa capacità di vedere e di far vedere? Se c'è una qualche derivazione o magari qualche impresto dagli incisori del passato?

Può darsi di sì! Anzi sicuramente sì. Ma in ogni caso si tratta di un'ipoteca leggera, lontana, abilmente dissimulata e quasi inavvertibile.

Perché Henri è un artista indubbiamente colto. La spontaneità, l'inesauribile fluire del segno, non è immediata, primitiva e psichica, anche nei segni più disinvolti e fulminei. Anche il tratto rapido e spezzato di getto, non ha nulla di tronco o di puramente istintivo, ma si presenta carico di una cultura visiva profonda, che però guarda al passato come a un indistinto luogo di origine, a cui ormai la lega tenacemente solo il suo profondo attaccamento alla vita delle forme. Massimo Bertozzi

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